giovedì 20 ottobre 2011


Lampedusa Note preconfezionate
stordiscono
coscienze bruciate dal sole
Sorrisi laccati
annegano nel mare
dell’indifferenza
Sogni cristallini
s’infrangono
contro lo scoglio
dell’umana bramosia
Vita scivola via…
tra silenziosi frastuoni

Nebbia-Ghigliottina


Nebbia-Ghigliottina

Dove si va, intrecciando le proprie dita a quelle di Grazia Calanna? Dita di mani o di piedi? Tutte, e quindi dove si va se ci si può ferire con spilli arrugginiti o rischiare di restare, per sempre, immobilizzati dentro un fosso di lacrime di pece? Si va, senza un’attesa di risposte, sotto vulcani di Sicilia e tane per conigli dagli occhi color mavì, tra contrabbassisti e violinisti che hanno perduto il senno e ancora quella pece, per corde che stonano qualunque canto pensato per omaggiare il mare. O chi? Crono? L’assassino di se stessi clonati può essere cantato in versi? Può, temendogli l’immaginazione, perdonandogli la crudeltà, raccogliendogli la sorte.
Pensiero /si espande /- lentamente - / Penetra /- bramoso - / tra le viscere / Vita / - sdrucciola - / altrove… / È gas / - intorno - / Il vuoto / tra le stanche mani
Crono è il vulcano che si china sui propri lapilli ancora tiepidi, che vi sputa sopra impedendogli l’estremo gusto per la vita che concede perfino un’agonia.
Dunque abbiamo deciso di intrecciare le dita a quelle di questa poetessa portatrice sana di solitudine: non sarà semplice il cammino, l’ho detto dal principio. Una solitudine senza colpe, ma che colpe diventano, macigni, come quello avuto in fasce, figlio, da Crono. Così dice la mitologia, che torna ad accompagnare le esistenze, maschili o femminili che siano. Solo penetrando il mito di Crono possono apparire limpide le parole di Grazia Calanna, esposte senza abiti, senza culle, senza carillon pietosi negli imbrunire silenziosi, amputati. Il frastuono del silenzio / sgretola l’anima / Stilla dopo stilla / la vita si scioglie / senza mai sorrisi/recisi…senza mai certezze/carezze… Perché? Perché la lama dell’impotenza trafigge il cuore inondando il cammino di fiumi color porpora…
Si attende, di fronte a un mare di carta marmorea priva d’onde e di balocchi, la secca del fiume, per poter dire, finalmente, Adesso la mia colpa cadrà dentro l’assenza dell’attesa. Forse anche la nebbia mensile, puntuale come una ghigliottina, come una gogna, scomparirà.
Sono certa che un candido coniglio saprà lasciare il suo comodo cilindro di magie per consolare quei precipizi di pungente lucidità che assillano l’intera scrittura di una poetessa che dovrà imparare a scordare Crono, per sopravvivere. Se imparerà che dalla sozza melma sono capaci di sbocciare piccole pietre di pece di Sicilia, limpide, figlie. Solo allora smetterà di dialogare con i fantasmi diurni delle sue giornate gessate, e camminerà con indomita fierezza, senza desiderare la distruzione della sincerità degli specchi, una volta messa a tacere la “convenienza” dell’omologazione. Chi aveva suonato gelidi assoli, tacerà l’indiscrezione, laverà la lama indifferente alla carne già ferita. Nasceranno nuove orchestre con voci differenti di inutili nutrici, e saranno canti e suoni mai uditi in alcun luogo, non semplici, ma sinceri, non felici, ma capaci di preferire la burla al serio. Sarà questo il momento in cui anche gli oggetti zitti mostreranno la lingua e il riso, senza pentimento nello svolgimento della loro vita.
Grazia Calanna. Il principio fu il mito di Crono, silente. Silente non lo è stato. Non per me avvezza ad ascoltare più il disagio che la comodità. Ad essere, più il disagio che la comodità.
Lascio ad altri il compito saggio di “esaminare” e “definire” la scrittura dell’autrice di questo meraviglioso poemetto. Non l’ho letto in quanto “critica”. L’ho letto, e ingoiato amaramente, in quanto donna destinata (forse da un dio contemporaneo?) ad uccidere i propri embrioni. La mia lettura è quindi certamente distorta dagli specchi che continuo, ostinatamente, a tenere appesi alle pareti. Grazia Calanna mi perdonerà: la generosità dei suoi versi mi porta a pensarlo. Versi privi di ninnoli e di acchiappasogni. Nessuna moina in questo volume: fatti.
Sarà difficile staccare le mani da quelle di Grazia Calanna: alla conclusione dei suoi versi, la sua pece sarà divenuta anche la nostra. Oblìo cinerino. Mancate coincidenze. Intraducibile silenzio.

Savina Dolores Massa

Crono Silente di Grazia Calanna - Recensione Cultura LA SICILIA


Crono Silente di Grazia Calanna - Recensione Cultura LA SICILIA

martedì 11 ottobre 2011

Intorno a Crono Silente di Grazia Calanna




Intorno a Crono Silente di Grazia Calanna
(Nota critica a cura di Dario Matteo Gargano)


(…) Apro il libro: Grazia Calanna e il suo crono silente, un tempo silenzioso. Un tempo del dire sottovoce, o centrifugo, verso il suono assente ma presente. Una poesia che ancora una volta serve da terapia, da valvola di sfogo, consolatoria, in quanto esemplifica l’ontologia dell’esserci verso un fatuo buio. Ma è apparenza? Trasuda una velata speranza, poco humour, ma una fede interna- che mi ricorda Meister Eckhart-, una illusa voglia di aspettarsi una salvezza chissà da quale Dio. Ma c’è però una rinuncia di presa di posizione forte dell’azione dell’uomo vista nella sua, di lei, esistenza. Attende il meglio. Quel meglio che non c’è, perché la sincronia è un fatto meccanico, o una coincidenza creata di proposito quando la si vuole insistentemente e compulsivamente. Si crea un palcoscenico universale dove l’attore cade verso la maschera dell’apollineo, il cristico e quindi il tragico. Come può esserci però una speranza dal tragico? Le poesie di Grazia Calanna sono brevi, laconiche a sottolineare la fretta del passaggio dell’esserci, del nostro respiro breve, circa 21 mila giorni complessivi, in media. La parola chiave è il silenzio, una necrosi della “fonia” o della stessa esistenza? Dico che non c’è un tempo assoluto, non c’è nessun tempo che possa riscattare l’esistenza. Ma la magia sta in questo mia dolce Grazia: giocare col “chronos”. E così lo porto avanti, ora indietro. Ora mi fingo in ritardo, ora mi illudo, ora mi disilludo, i ritmi circadiani si stagliano come orologio biologico interno. E un Dio rimane comunque assente. Anzi. No. Dio esiste. Solo che dorme sempiternamente. Nello spazio è sempre notte. E così c’è l’affanno di una estropia esterna, si richiede l’intervento, un intervento altrui, una mano, una stampella per raggiungere la felicità. Quella felicità che gioca a nascondino coi sensi del cogito andrico da per sempre. È una poesia tautogrammica continua (veglio-vegli-vegliardo...), una poesia che scorre inesorabilmente, ma pregnante, sì, pregnante di un vuoto significativo dal di lei punto di vista. Grazia è una Keats mancata, una scrittrice che piange, in quanto recupero sistematico di quella fanciullezza bambina. Piange nei suoi versi la mancanza di qualcosa, il vuoto. Che si fa recuperabile- o si potrebbe- solo uscendo dal pensiero sociale, dalle informazioni esterne che meditano complotti a chi si dubita inferiore, o a chi sconosce l’algoritmo per uscirne da tutto vincenti, tedofori stanchi ma estasiati. Esorto Grazia a seguitare la scrittura, l’espressione. Deve muoversi verso una miglioria dell’humour. Il miglior benessere deriva dalla solitudine costruttiva, da un dis-immedesimarsi, dal non pensarsi più come si era- o è- fatto attraverso quell’abitudine costrittiva. C’è tanta luce che alberga in lei. Una luce che potrebbe illuminare d’energia pulita quanto di inespresso v’è in questo migliore tra i mondi possibili.


Chioso.


DMG

CRONO SILENTE di GRAZIA CALANNA


CRONO SILENTE di GRAZIA CALANNA

L’AZZURRO DEL BENE, nota critica di Mario Grasso

Per ogni nuovo poeta che scopriamo si accende una luce che prima non c’era.
Diciamo una luce per dire che qualcosa di magico si aggiunge alla capacità di capire probabili frammenti della vita e del suo mistero. Perché mistero è la vita e non solo per la imprevedibilità che in essa si annida, quanto per gli stimoli che ogni presenza di vita provoca intorno a sé, stimoli per reazioni che si manifestano per innestarne altre, e all’infinito. Grazia Calanna ha esordito da poeta dando alla silloge un titolo allusivo verso due miti della vita umana, il tempo e il silenzio .
(Crono silente – pagg. 80 - € 10,00 – Prova d’autore). È importante leggere quanto ha scritto nella sua impetuosa prefazione Savina Dolores Massa, una rapida sintesi che tanto contiene e più dimostra. Onestà di lettore vuole che si riconosca nella centrata definitorietà dell’intervento della prefatrice il grumo centrale di quanto Grazia Calanna ha distillato, con disinibita franchezza, quasi a proporre un canto ossimoro rispetto alla promessa (pur pienamente onorata) del titolo. Il fatto è – potrebbe essere avanzato – che il silenzio caratterizza chi ha riserve di cose da dire sulla umana condizione, e per dirle non ricorre al filtro dell’ambiguità ma al machete-maglio della propria verità, quasi a farne omaggio a quella inconfutabile regola che identifica la letteratura nella vita e non certo per la contingenza di ripararsi sotto un libro-manifesto del secondo decennio del secolo scorso: “Letteratura come vita” di Carlo Bo (1929). E dire che, quella volta, si era già appena alla soglia della stagione ermetica. Una stagione che fu amata dalla poesia e che resiste nella sua formula di calcolate reticenze, forse in omaggio a una delle pretese della lirica che privilegia i luoghi dell’inespresso, che rifugge i momenti del didascalico e del parenetico, per esorcizzare il pericolo del moralismo. Eppure proprio questa ultima considerazione potrebbe celare un limite assurdo al momento di poter essere adattata alla poesia. Perché la poesia è anzitutto la ricerca e l’affermazione del vero. Forse perché il vero è la parte nobile e destinata a sopravvivere, forse perché la verità è amata e cercata da tutti (come la poesia, appunto) anche se, ironia della sua sorte, la verità offende. Proprio così. Ma Grazia Calanna non propone offesa alcuna quando ci ricorda con i versi iniziali di “Briciole”, che “C’è chi concede briciole / avaro / C’è chi si sbriciola / altruista / C’è chi finirà in briciole / avido / C’è chi di briciole risorgerà /azzurro”. Il colore azzurro è qui significativo e può invitare a curiosare nella tavolozza dei colori che si succedono in “Crono silente” spesso accompagnati da riferimenti termici che complementano di allusività palesi le proposte della poetessa. Infatti i colori in Crono silente sono tanti, e il loro non è un ricorrere né un ricorrersi, se ne coglierà pieno il significato valutandone il pendant con le temperature, che tendono ai valori alti. Lasciamo ai lettori il piacere di scoprire la scala delle temperature, in Crono silente e segnaliamo quella dei solfori. Ed ecco come, tra grigi pag.19 e 42; pece, pag. 20 e nera pag.45, si giunge al plumbeo (pagg. 38 e 49) e dall’ebano i pag. 27 al cinerino della successiva al bianco della 29. In controtendenza con il vermiglio di pag. 18 che si coniuga al porpora (pag.37) e ancora allo scarlatto (pag. 56), isolando il rubino di pag. 40. L’azzurro e il celeste (pag. 44 e pag.56) negano il bianco e relegano il “buio” nel suo ricorrere tra le pagg. 22, 34, 37…. Lasciamo fuori, anche stavolta al piacere dei lettori, le centrate figuralità simboliche ma solo altro tra i segni rivelatori, che confermano la lealtà della scrittura creativa di Grazia Calanna, forte di tensione interiore autentica quanto “silente”, proprio in arrendevole intelligenza con le esigenze inesorabili del Tempo-Crono. Non resterebbe che il tentativo di entrare nel merito della forma. Banco di collaudo per la letteratura in genere, per la poesia in particolare. Ed è su questo fronte che si è chiamati alla responsabilità di definire quanto possa essere destinato a separare i momenti della cronaca da quelli della letteratura come vita. Un momento che si affida all’evidenza proprio nel caso di questo esordio di Grazia Calanna, che ha scelto di raccontare i momenti dell’inesprimibile subliminale ricorrendo alla formula di un diario in pubblico, tra le cui pagine non si svolge il canto di quanto raccolto o ripudiato, visto o ascoltato, ma il fedele diagramma di un’anima che reagisce, il tracciato di un percorso di sensibilità offesa, che ha disegnato i confini oltre i quali c’è l’azzurro del bene, più come ipotesi e speranza che come tesi ed esperienza. Un mondo nel quale non c’è molto da scegliere oltre “Conforme conformante conformismo / Catene impermeabili / schivano il temporale perenne di un tempo / asservito all’antropica silente stoltezza”. Ecco l’imporsi della propria verità a dar nome e immagine all’inesprimibile, che tale finirebbe di essere se tautologicamente si ponesse fine, per sempre, all’ipocrisia e al pecorume del “come l’una fa le altre fanno”. Infinite sono le vie per dire il vero, Grazia Calanna ha scelto quella più semplice, quella di un tipo di spontaneità che fu tanto cara a Umberto Saba, il poeta che ci ha lasciato per insegnamento che “La notte vede più del giorno”, una lezione che Calanna porta in sé con fiera consapevolezza e umile approccio, anche per non urtare più di quel tanto il “conforme conformante conformismo”, nel quale chi più chi meno, tutti continuiamo a vivere immersi, anche nei momenti in cui ci ergiamo a giudici degli altri, trascurando di giudicare, anzitutto noi stessi.

(Mario Grasso)

CRONO SILENTE di Grazia Calanna


CRONO SILENTE di Grazia Calanna
“Un silenzio come lo spartito ricco di pause significative e necessarie”
Il silenzio presente nel “Crono Silente” di Grazia decora è come lo spartito ricco di pause significative e necessarie. Le note fanno da contorno ad ogni battuta d’aspetto e danno l’annuncio alla pausa successiva colma di riflessioni e sospiri. Così il lettore si prepara a incontrare le proprie emozioni, ascoltando i suoni e attendendo il chiassoso silenzio. Appena arriva la pausa ecco il confronto con quell’io a volte dimenticato. Ecco il chiarore del fulmine nell’oscurità che illumina l’angolo nascosto della “villa anima” sta a ognuno di noi decidere se girare gli occhi o guardare. Piccole istantanee, che ingiallite nelle nostre mani, oltre a muovere ricordi ci spingono a osservare l’immagine di se che ha attraversato il tempo, a rivivere ciò che la mente ha vissuto, e scrutare le piccole pieghe della foto irrilevanti per altri ma non per noi.

Nota di Antonio Raciti